ABBANDONO E RISCOPERTA DEL FORO ROMANO
Ben poco rimaneva ancora visibile dell'antico splendore del foro romano all'ignoto pellegrino tedesco che di passaggio per Roma intorno alla metà dell'VIII secolo redasse una sintetica descrizione della città. Da questi appunti di viaggio - confluiti insieme ad altri in una raccolta nota come Itinerarium Einsiedlense (o Anonimo di Einsiedeln), dal monastero tedesco in cui essi furono conservati - risulta che erano ancora chiaramente identificabili in quel periodo solo gli edifici alle pendici del Campidoglio, cioè l'Arco di Settimio Severo, la Curia, il Tempio della Concordia, il Tempio di Vespasiano e Tito (di cui venne trascritta l'iscrizione dedicatoria, in seguito quasi del tutto perduta); altri monumenti sono invece per noi difficilmente identificabili, come la grande base di una statua equestre dell'imperatore Costantino (l'Equus Constantini) vista all'interno della piazza del foro e oggi ipoteticamente riconosciuta nei pochi resti del basamento su cui è montata la Base dei Decennali.
Dall'ultima costruzione eretta nel foro, la Colonna di Foca, erano passati poco più di due secoli, eppure da allora abbandoni e volontarie distruzioni avevano reso il foro un campo di macerie, posto ormai al di fuori della città medievale, che si concentrava nel quartiere della Subura o iniziava a rioccupare i grandi edifici pubblici del Campo Marzio in rovina.
Uniche sopravvivenze nel foro romano erano i pochi templi trasformati a partire dal VI secolo in chiese: Sant'Adriano all'interno della Curia Iulia, SS. Cosma e Damiano all'interno del Tempio di Romolo e nella biblioteca del Forum Pacis, S. Maria Antiqua in una porzione dell'Athenaeum di Adriano, l'Oratorio dei Quaranta Martiri presso il Lacus Iuturnae, a cui si aggiunse, nell'VIII secolo, la chiesa di San Lorenzo in Miranda, ricavata nel Tempio di Antonino Pio e Faustina.
Pochi altri edifici si conservarono invece perché inglobati in complessi fortificati appartenenti a nobili famiglie, il più famoso dei quali fu quello dei Frangipane, che a questo scopo usarono l'arco di Tito. L'abbandono del luogo e la trasformazione dei templi in edifici di culto cristiani determinarono la progressiva cancellazione dell'antico foro romano dalla memoria collettiva della città e i pochi tentativi di ricostruirne l'aspetto - come quello dei Mirabilia Urbis Romae, per tutto il Medioevo la guida turistica dell'Urbe - confusero gli edifici e mescolarono leggende di fondazione pagane e cristiane in un intrico indissolubile. Tuttavia, nel corso del Medioevo, in quello che era diventato un pascolo di armenti, tanto da meritare il nome di Campo Vaccino, molti edifici rimanevano ancora gelosamente conservati dal terreno che nel frattempo si andava accumulando sempre più; l'interro era divenuto talmente profondo che nel XII secolo il pavimento della chiesa di Sant'Adriano dovette essere rialzato di quattro metri per farlo coincidere con il livello stradale. E' con il Rinascimento che il foro romano subisce la perdita di molti edifici: per il rinnovamento della città, Giulio II inaugura in grande scala lo sfruttamento dell'area come cava di materiali.
Il foro romano torna per un solo momento agli antichi splendori quando, per solennizzare l'ingresso di Carlo V a Roma dopo la vittoria sui Turchi nel 1536, Paolo III Farnese crea una temporanea via trionfale che dall'arco di Tito arriva fino a quello di Settimio Severo. Gli anni compresi tra il 1540 e il 1550 videro le maggiori distruzioni, come diretta conseguenza dell'intensificarsi dei lavori per la costruzione di San Pietro. Particolarmente grave fu il destino subìto dal Tempio del Divo Giulio, dagli archi di Augusto situati ai lati di esso e dalla Regia; come ricorda la cronaca di questi lavori redatta da testimoni oculari dell'epoca come Pirro Ligorio e Onofrio Panvinio, la distruzione di molti monumenti avvenne rapidamente, in qualche caso addirittura nel giro di un solo mese.
A nulla valsero le proposte avanzate da Raffaello per conservare gli antichi monumenti romani o le riserve espresse da Michelangelo sugli scavi di rapina compiuti in quegli anni: la nuova Roma che celebrava la gloria dei Papi distruggeva la Roma dei Cesari proprio nel periodo in cui la riscoperta del passato si era fatta più viva nelle raffinate e colte corti rinascimentali. Nel XVI e nel XVII secolo poco rimaneva visibile in superficie per incoraggiare nuove campagne di recupero di materiale. Il foro romano venne di fatto lasciato in stato di abbandono, tranne che per la fila di olmi che lo attraversava dall'arco di Tito a quello di Settimio Severo, all'ombra dei quali si riposavano i mandriani che portavano il bestiame al pascolo nel "Campo vaccino".
Fu la nuova visione del mondo antico che scaturì dall'opera di Winckelmann a imprimere una decisiva svolta ai languenti studi di antiquaria. Gli esordi dell'archeologia moderna ebbero allora il foro romano come scenario privilegiato di studio; i lavori condotti da Carlo Fea, sensibile ispiratore di norme per la conservazione dei monumenti antichi, costituirono i primi passi di una lunga attività di scavo e di ricerca che ebbe come protagonisti, dopo l'Unità d'Italia, Pietro Rosa, Giuseppe Fiorelli, Rodolfo Lanciani e Giacomo Boni. I risultati del loro lavoro sono oggi sotto gli occhi dei visitatori che ogni giorno entrano a visitare l'Area Archeologica del Foro Romano, gestita e tutelata dalla Soprintendenza Archeologica di Roma.
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