LA GESTIONE DELLA RETE IDRICA A ROMA NELL'ANTICHITA'

I complessi impianti idraulici, sia in entrata che in uscita, avevano lo scopo di soddisfare i bisogni fondamentali delle popolazioni che vivevano nelle grandi e piccole città dell'impero. Roma, in particolare, riceveva e doveva eliminare un volume d'acqua molto elevato, stimato in 14 m³ al secondo, circa 1.200.000 litri di acqua al giorno, che dovevano essere gestiti, usati e quindi smaltiti.

Ciò comportava la necessità di una ferrea organizzazione centralizzata che garantisse la distribuzione e lo smaltimento. Dobbiamo fare riferimento allo storico Sesto Giulio Frontino che ci fornisce, nella sua epoca, sotto il principato di Nerva, indicazioni precise sulla distribuzione dell'acqua in città e nel territorio. Il 17% dell'acqua era a disposizione dell'imperatore, il 38% era riservato a privati e il 45% era destinato ad uso pubblico. Da questi dati, tenendo conto che anche l'acqua dell'imperatore era almeno in parte disponibile in quanto raggiungeva anche strutture imperiali aperte al pubblico, dobbiamo pensare che moltissima acqua era di uso pubblico, anche se solo una parte minoritaria della popolazione aveva allacci diretti nelle case.

Infatti il 38% dell'acqua distribuita ai privati non corrisponde al 38% della popolazione che in gran maggioranza era sprovvista di acqua e si serviva delle fontane pubbliche. Il grosso della popolazione, come ci ricorda Frontino, usava le 105 fontane pubbliche e i 591 bacini pubblici (mentre i più ricchi avevano allacci al piano terra), e usava l'acqua anche delle terme private, delle fontane ornamentali e dei giardini.

Nel 334 d.C. una fonte riporta che a Roma esistevano 1212 fontane, 926 terme pubbliche e 11 terme imperiali. La grande diffusione dell'acqua garantiva condizioni igieniche generali più che soddisfacenti, condizioni che si sono recuperate sono alla fine dell'800. Per raggiungere le varie utenze, pubbliche e private, l'acqua non poteva arrivare direttamente dagli acquedotti. In questi, l'acqua correva in canali con dimensioni enormi, fino a qualche metro quadrato di sezione, che non trovano nessun riscontro nelle dimensioni dei tubi di piombo che al massimo, avevano un diametro di 30 cm. Dai serbatoi terminali degli acquedotti, o dalle fontane, l'acqua, suddivisa in varie tubazioni, raggiungeva dei serbatoi di piccole dimensioni, i castella, che avevano la funzione di ripartitori. Gli stessi castella alimentavano, oltre ad alcune utenze, altri castella, posti via via a quota inferiore fino a raggiungere le utenze più basse in quota.

Frontino ci indica che a Roma esistevano 247 castella dai quali i tubi raggiungevano direttamente le utenze o altri serbatoi per alimentare i grandi edifici che consumavano forti quantitativi d'acqua. Frontino ci ricorda anche che per evitare che le fontane pubbliche restassero senza acqua, in caso di rottura o di interruzioni per la manutenzione, l'impianto prevedeva che ogni utenza pubblica fosse servita contemporaneamente da due acquedotti, se uno si interrompeva, l'altro lo sostituiva. Gli studi sulla distribuzione dell'acqua nei centri urbani, in particolare a Roma, sono scarsi, mentre informazioni di grande interesse potrebbero essere raccolte in aree archeologiche particolarmente favorevoli quali Pompei e Ostia antica. E' noto che per l'impero romano una delle principali forme di spettacolarizzazione del potere era l'acqua e, a tal fine, era favorito e stimolato ogni avanzamento della tecnologia che permettesse, particolarmente in luoghi aperti al pubblico, la massima diffusione della fruizione delle utenze idriche: fontanelle, bacini, fontane, bagni, latrine, terme.

La distribuzione di grandi quantitativi di acqua, il numero di fontane, l'altezza e la ricchezza dei getti d'acqua, le dimensioni dei bacini e delle piscine, la dotazione di ampi e lussuosi servizi igienici, miravano a destare meraviglia, stupire e soddisfare un'esigenza che, almeno per le terme, sopravvive, come eredità dell'impero romano d'Oriente, in tutto il mondo arabo e nell'Europa orientale.