DALLA TERRA DEI FARAONI: LABORATORIO DIDATTICO NEL MUSEO EGIZIO IN VATICANO PER LE SCUOLE

Conoscere la civiltà degli ANTICHI EGIZI per comprendere al meglio le Sacre Scritture: fu quella la molla che spinse Papa Gregorio XVI a inaugurare il museo egizio nel 1839.

Basta una rampa di scale, quella progettata da Michelangelo Simonetti tra il 1771 e il 1784, per trovarsi catapultati dalla Roma attuale nell'Egitto di cinquemila anni fa. È aria di sabbia e mistero quella che si respira nel Museo Gregoriano Egizio, il secondo dei tre (oltre a questo il Museo Etrusco e quello Profano) fondati da Papa Gregorio XVI (1831-1846). L'inaugurazione, il 2 febbraio 1839, fu solenne, l'intento quello di mettere insieme il maggior numero possibile di antichità egizie.

Ma perché il Pontefice si era preoccupato di dare visibilità ai faraoni e all'arte della loro terra? Da un punto di vista strettamente religioso, la scelta era motivata dal ruolo dell'Egitto nelle Sacre Scritture.

Da lì, infatti, il popolo ebraico guidato da Mosè si era messo in cammino verso la Terra Promessa: mostrare la ricchezza archeologica di quei luoghi significava poter dare una collocazione storica e geografica reale al racconto biblico. C'era però anche un interesse più prosaico: dopo la scoperta della Stele di Rosetta (1779) e la decifrazione dei geroglifici (1822), entrambe imprese dell'egittologo francese Jean-François Champollion, era esplosa l'"egittomania": da buon erudito, Gregorio XVI volle dare così il suo contributo al collezionismo di reperti egizi. Tanto più che, a differenza dei privati, costretti ad assoldare esploratori e predatori di antichità, il Pontefice aveva a portata di mano tutto ciò di cui aveva bisogno: nell'Urbe infatti i pezzi egizi erano cominciati ad arrivare fin dal I secolo d.C., per lo più su richiesta degli imperatori romani, attratti dal fascino della nuova provincia romana.

Arriva appunto da Saais (nome greco della città egizia di Zau, oggi Sa el-Hagar) uno dei documenti storici più importanti della collezione gregoriana: la statua in basalto verde di Udia-hor-res-ne, un importante personaggio vissuto nel VI secolo a.C. I geroglifici incisi sulla veste di questo sacerdote, che fu anche medico e ammiraglio, hanno aiutato gli storici a ricostruire le fasi della turbolenta conquista dell'Egitto da parte del re persiano Cambise (525 a.C.).

TOCCO ESOTICO. Agli originali di questo tipo si aggiungono anche le opere "in stile egizio" realizzate nella capitale in epoca imperiale, per dare un tocco esotico alle ville patrizie. Ne sono un esempio le statue provenienti dal Serapeo (il tempio di Serapide) della Villa dell'imperatore Adriano a Tivoli, parte di un complesso all'aperto, simbolica ricostruzione della Valle del Nilo e del Canale di Canopo, che collegava Alessandria a un ramo del Delta del Nilo. Proprio in quel canale era stato volutamente annegato Antinoo, il giovane amante dell'imperatore, nel II secolo d.C. durante un viaggio in Egitto al fianco del suo signore.

Antinoo era stato sacrificato per cambiare il destino dell'imperatore, che, secondo la divinazione di una aruspica, sarebbe dovuto morire nella successiva battaglia. Adriano non riuscì mai a farsene una ragione. Sconvolto per la morte dell'amato diciannovenne, non solo lo fece divinizzare, ma fece edificare un tempio nel luogo della sua morte e in sua memoria fondò pure la città egizia di Antinopoli, prorio sulle rive del Nilo. Lo fece poi ritrarre in numerose statue, una delle quali si trova nella terza sala di questo museo (una ricostruzione parziale del Serapeo di Adriano): 240 centimetri scolpiti nel marmo bianco, che ritraggono il giovane nelle vesti del dio egizio Osiride, secondo la leggenda ucciso dal fratello Seth, ma riportato in vita da sua moglie Iside.

Il richiamo all'Aldilà giunge ancora più forte dalla sala dedicata agli usi funerari egizi: vengono dalla grande necropoli di Deir-el-Bahri, vicino a Tebe, il sarcofago della sacerdotessa Djer-Mur, "nutrice del dio Montu", e la mummia dell'uomo che, da circa 3000 anni, osserva il mondo dalle sue bende di lino, mostrando solo la testa e le mani, così scure da sembrare di cuoio. Vicino ci sono i vasi canopi, i contenitori in cui gli imbalsamatori deponevano gli organi estratti dal corpo del defunto al momento della mummificazione: polmoni, fegato, stomaco e intestino. Non il cuore, che veniva ricollocato nel petto della mummia: solo soppesandolo Osiride avrebbe potuto giudicare la condotta del defunto. Ma arrivare al cospetto del dio non era impresa facile: per questo gli Egizi inserivano nel corredo funebre qualsiasi accessorio potesse rendere il viaggio dei defunti e la vita nell'Aldilà più comoda. Come il modellino in legno di una imbarcazione, con tanto di timoniere e rematori, che proviene da una sepoltura del III-II millennio a.C.

UN LIBRO PER L'ETERNITÀ. Tra tutto, però, ciò di cui il defunto non poteva fare a meno (almeno a partire dalla metà del II millennio a.C.) era il Libro dei Morti: quello del Museo Gregoriano apparteneva al sacerdote Pacherientahier e risale al VI secolo a.C. Lungo oltre 16 metri, venne tagliato e diviso, per motivi di conservazione, in 31 fogli incollati su tela di lino e legati insieme a mo' di libro. A che cosa serviva? Si trattava di una specie di manuale di sopravvivenza, con preghiere, racconti e formule magico-religiose da utilizzare per cavarsela nei momenti critici del passaggio nell'Aldilà.

Non ne avevano bisogno i gatti, che in Egitto riempiono un'intera necropoli a loro dedicata nella città di Par Bastet (vicina all'attuale Zagazig), centro del culto della dea Bastet, una versione egizia della dea greca Artemide. I suoi ospiti, particolarmente cari alla divinità e considerati sacri in tutto l'Egitto, a volte venivano sacrificati a scopo rituale e poi mummificati: per questo non è raro trovare bronzetti e piccoli sarcofagi a forma di gatto, anche nella collezione gregoriana.

Altrettanto amato nel mondo animale era il coccodrillo: sacro al dio Sebek, divinità dell'acqua e delle inondazioni del Nilo, è ritratto spesso accanto alla personificazione del fiume, come accade nella statua giacente esposta nella quarta sala, scolpita tra la fine del I e gli inizi del II secolo, ma frutto di un restauro quasi completo nel Cinquecento. La cornucopia nella mano sinistra del Nilo serviva a ricordare la ricchezza del corso d'acqua, che con le sue esondazioni fecondava i campi grazie al limo ricco di minerali. Ironia della sorte, l'opera si trova a pochi passi dalla statua di Antinoo: il Nilo dà, il Nilo toglie!

Per ulteriori informazioni o per prenotare la visita guidata e il laboratorio didattico nel Museo Egizio in Vaticano per le scuole, compilare il form sottostante oppure inviare una mail a inforomabella@virgilio.it, lasciando un recapito per essere ricontattati.