I MAESTRI DEL COLORE: LA PINACOTECA VATICANA

L'inestimabile patrimonio della Pinacoteca Vaticana, oltre 460 opere che coprono un arco di sei secoli, dal 1200 al 1800, ha una storia tortuosa e travagliata, strettamente connessa alle vicende del papato. Sarà infatti solo nel 1930 che Papa Pio IX deciderà di dare una sede autonoma alla raccolta, che si era formata attraverso acquisti, lasciti e donazioni e fino ad allora esposta frammentariamente in vari ambienti dei Palazzi Apostolici, affidandone il progetto a Luca Beltrami, l'architetto milanese che aveva restaurato, tra l'altro, il Castello Sforzesco e la Certosa di Pavia.

PRIMA E DOPO NAPOLEONE. L'edificio della nuova Pinacoteca, inaugurato il 27 ottobre 1932, sorge sulla porzione settentrionale dell'antico Giardino Quadrato, che oggi è infatti divenuto rettangolare, e conta un totale di diciotto sale cronologico-tematiche.

Fu papa Benedetto XIV, nel 1748, a istituire in Campidoglio la prima Pinacoteca Pubblica dello Stato Pontificio, che prendeva quindi il nome di Capitolina. Verso il 1790, però, Papa Pio VI costituì una nuova Pinacoteca in Vaticano, dove confluirono buona parte delle opere conservate ai Capitolini e nel Palazzo del Quirinale. Questa nuova raccolta, che prendeva il nome proprio di Pinacoteca di Pio VI e che era ubicata negli stessi ambienti dell'attuale galleria degli Arazzi, fu oggetto di saccheggio da parte di Napoleone nella prima campagna italiana.

In seguito al trattato di Tolentino del 19 febbraio 1797, i tesori del Vaticano - pitture, sculture, codici miniati e moniti preziosi - furono trasportati al Louvre. Dopo la caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna aveva sancito la loro restituzione e Papa Pio VII aveva spedito a seguirne il recupero Antonio Canova, il grande cultore allora Ispettore Generale dei Musei Vaticani. Delle 506 opere pittoriche trafugate e portate a Parigi, venti anni dopo ne fecero ritorno in Italia meno della metà, alle quali vanno aggiunte le centinaia di capolavori scultorei e librari, oltre a una infinità di monili in oro e argento, in gran parte andati distrutti perché fusi per farne moneta per la soldataglia.

Tra i capolavori riportati oltre il Tevere figuravano due delle maggiori gemme dell'attuale raccolta: la Trasfigurazione di Raffaello e la Deposizione del Caravaggio.

Dopo una serie di modifiche, trasformazioni e spostamenti da una parte all'altra dei Palazzi Apostolici, agli inizi del '900 fu creata una prima Pinacoteca Vaticana per ordine di Pio X. Su progetto dell'architetto Costantino Schneider, furono infatti ricavate nove sale al piano terreno del Corridore di Ponente, sotto la Galleria della Biblioteca Apostolica. Il giorno della inaugurazione, il 28 marzo 1909, la collezione contava ben 277 opere: 19 provenivano dalla soppressa Pinacoteca Lateranense, 181 (la collezione delle icone bizantine e dei Primitivi) dalla Biblioteca, 21 dagli appartamenti papali e dai depositi dei Sacri Palazzi. Quando nel 1912 fu soppressa anche la Pinacoteca di Propaganda Fide, che aveva sede a Palazzo Mignanelli, le sue 163 opere vennero donate al papa, che ne trattenne 25 per i suoi appartamenti e trasferì le restanti nella Pinacoteca Vaticana. Nel 1924 la raccolta fu incrementata dalla donazione Antonio Castellano (42 opere) e dalla acquisizione di 14 frammenti di affresco di Melozzo da Forlì, in precedenza conservati nella Sacrestia di San Pietro.

Ora sono l'attrazione principale della sala quarta della Pinacoteca: specie il celeberrimo gruppo degli Angeli Musicanti. Contornavano in origine una grande Ascensione di Cristo, affrescata nel 1480 nell'abside della basilica dei Santi Apostoli di Roma. Questi angeli di straordinaria bellezza dovevano essere disposti su vari livelli. Una orchestra celeste, composta, si suppone, da una ventina di elementi. Ciascuno alle prese con uno strumento diverso: lituo, tamburo, triangolo, mandolino, flauto, viola e così via. Più in basso dovevano essere collocate le figure degli Apostoli, dei quali possiamo ammirare, nella stessa sala, altri frammenti: quattro teste, per la precisione.

ALL'ORIGINE DELLA LEGGENDA. Nel 1931 la Pinacoteca si arricchì di un altro capolavoro proveniente da San Pietro, qui ricomposto e restaurato: il Trittico Stefaneschi, collocato nella sala seconda, tra i dipinti di altri grandi Maestri italiani del Trecento e Quattrocento: Pietro Lorenzetti, Lorenzo Monaco, Gentile da Fabriano, il Sassetta e via elencando. Il polittico, in gran parte eseguito dagli aiutanti di Giotto intorno al 1320, era collocato in origine sopra l'altare maggiore della antica Basilica costantiniana di San Pietro.

Committente e donatore dell'opera fu il cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi, canonico della basilica stessa. Lo si vede raffigurato su entrambe le facce del trittico. Sul lato principale è inginocchiato sulla destra ai piedi di San Pietro in atto di offrire al Principe degli Apostoli il modellino dello stesso trittico.

La sala successiva, la terza, rende omaggio a quattro protagonisti della prima metà del 1400: Masolino da Panicale, Filippo Lippi, Benozzo Gozzoli e il beato Angelico. Di quest'ultimo sono esposte una Madonna col Bambino e i Santi Domenico e Caterina d'Alessandria e le vivide Storie di San Nicola di Bari, ovvero due dei tre scomparti della predella del Trittico di Perugia, capolavoro dipinto nel 1437 da Fra' Giovanni da Fiesole, in arte Beato Angelico, per la cappella di San Niccolò nella chiesa perugina di San Domenico.

Con colori smaglianti e straordinari effetti di luce, le tavolette rievocano gli episodi salienti della vita del Santo Vescovo di Myra, in Turchia, le cui spoglie vennero traslate a Bari nel 1087.

Nel primo pannello è rappresentato, tra l'altro, il gesto che ha dato origine alla leggenda di Sankt Nikolaus o Santa Klaus (ovvero Babbo Natale e l'usanza dei doni natalizi): il Santo introduce nottetempo tre bisacce d'oro nella catapecchia di tre povere sorelle salvandole da un futuro di prostituzione.

VISIONI DIVINE. Nella sala quinta ci addentriamo nel cuore del Rinascimento. Opere di Ercole de Roberti, Bartolomeo Montagna, Cranach il Vecchio, Carlo e Vittore Crivelli, Antonio Vivarini e altri maestri preludono allo spettacolo della sala ottava, dedicata a Raffaello. La sala è unanimemente considerata il clou del Museo, perché qui "il visitatore capisce che Raffaello è come uno specchio che riflette imperturbabile, olimpico, il mondo di Dio e il mondo degli Uomini". La perfezione dell'arte raffaellesca è rappresentata da cinque dipinti e da una decina dei grandiosi arazzi creati per addobbare la Cappella Sistina sotto Papa Leone X. Tre dei dipinti sono vette riconosciute del suo magistero pittorico: l'Incoronazione della Vergine (Pala Oddi), la madonna di Foligno e la Trasfigurazione. Questa, che è anche l'ultima opera cui si applicò il genio di Urbino, fu ritenuta dai suoi contemporanei, "fra tante quante egli ne fece, la più celebrata, la più bella e la più divina" (come scrisse Giorgio Vasari). Non per nulla fu posta sopra il suo letto di morte, nella camera ardente.

La pala (4,10 m di altezza x 2,79 di larghezza) era destinata alla cattedrale di Narbonne, di cui era vescovo il Committente, il cardinale Giulio de' Medici, futuro Clemente VII, ed è frutto di una competizione ai massimi livelli. Raffaello, pressato da mille impegni, tardava a eseguirla, per cui il Cardinale ne commissionò un'altra anche a Sebastiano del Piombo. Quest'ultimo, aiutato da Michelangelo per le figure centrali, accettò la sfida creando una splendida Resurrezione di Lazzaro, che oggi si trova alla National Gallery di Londra. A quel punto Raffaello si dette una mossa e per superare il rivale, arricchì la scena inferiore del suo dipinto con un secondo palcoscenico teatrale sul quale gli Apostoli si affannano intorno a un giovane ossesso, che verrà liberato dal male dallo stesso Cristo in Gloria che guarisce dalla morte. Il capolavoro, per la cronaca, rimase a Roma a San Pietro in Montorio, dove venne sottratto dai soldati napoleonici.

La sala successiva introduce agli albori del Seicento dominati dalla rivoluzione caravaggesca. Ci sono un bellissimo Domenichino (Comunione di San Girolamo) e vari Guercino e Guido Reni, tra cui una virtuosistica Crocifissione di San Pietro, commissionata per la chiesa romana di San Paolo alle tre fontane, per la quale l'autore si ispirò alla Crocifissione realizzata qualche anno prima dal Caravaggio per Santa Maria del Popolo. Il Merisi non la prese bene e diffidò il collega dall'imitarlo ancora, pena la morte. Del Caravaggio è presente un'opera sola ma di enorme impatto. E' la celebre Deposizione dipinta per la chiesa di Santa Maria in Vallicella (1600 - 1604). Immortala la deposizione di Cristo sulla pietra dell'unzione, come era chiamata la lastra su cui venne preparato per la tumulazione. Il semplice grido muto di Maria di Cleofa, le braccia levate al cielo notturno, in contrasto con il bianco abbagliante del lenzuolo, sprigionano un pathos potente. Nelle fattezze di Nicodemo qualcuno ha ravvisato i tratti di Michelangelo, di cui il Merisi era grande ammiratore.

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