IL MUSEO EBRAICO DI ROMA E IL TEMPIO MAGGIORE - VISITA DIDATTICA INTERNA PER LE SCUOLE

CULTURA EBRAICA A ROMA

Per l'ebraismo lo studio dei testi sacri è una delle attività più nobili: non lo si può interrompere neanche per ricostruire il Tempio di Gerusalemme. Lo studio si basa soprattutto su:

la Bibbia, della quale fanno parte la Torà (Pentateuco), i Neviim (Profeti anteriori e posteriori) e i Ketuvim (Agiografi);

i sei libri della Mishnà, nei quali fu messa per iscritto la Legge Orale, secondo la tradizione rivelata a Mosè insieme al Pentateuco;

il Talmud, commento alla Mishnà. Con questo testo esegetico, fondamentale per l'ebraismo della diaspora, gli ebrei di Roma ebbero un particolare legame, perché la città vi viene spesso nominata.

Il contributo degli ebrei romani alla cultura ebraica è notevole. In età imperiale qui vivevano e insegnavano rabbini illustri che ricevevano delegazioni di rabbini della Terra d'Israele: tra questi, rabbi Shimon Bar Yochal e rabbi Eliezer Bar Yosè.

Verso il 1165 Beniamino de Tudela descrive gli ebrei di Roma come un gruppo fiero della propria identità e insieme integrato con la società, e con una vita intellettuale assai sviluppata. Il cenacolo culturale ebraico romano ebbe in tutto il Medioevo una grande importanza, per le sue relazioni con altri centri culturali ebraici e musulmani, anche molto distanti. La comunità annoverò uomini di cultura versati in discipline diverse, come la filosofia, l'esegesi biblica, l'astronomia, la medicina e la matematica, aiutati dalla conoscenza di più lingue, e dalla capacità di mediare fra le varie culture mettendole in contatto con la corte papale. Il poeta Immanuel Romano, contemporaneo di Dante, scrisse un poema in ebraico, la Machberoth, imitando la Divina Commedia. Gli ebrei romani furono anche traduttori: alcuni di loro, che avevano studiato nei paesi sefarditi e soprattutto in Spagna, sapevano tradurre dall'arabo trattati medici, scientifici e filosofici, e furono agenti preziosi nella trasmissione della cultura attraverso il Mediterraneo. Altre famiglie, cacciate dall'Europa centrale e settentrionale in seguito alle predicazioni ai tempi delle Crociate, avevano portato a Roma la loro Cultura.

Uno dei risultati più evidenti di questa fioritura è la produzione dei manoscritti miniati. Tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento lo scriptorium più famoso fu quello della famiglia Anav. Uno degli Anav, Zedakiah figlio di Avraham, scrisse il Sefer Shibbolè ha - Lequet, un compendio di norme religiose nel quale si descrivono gli usi degli ebrei romani del suo tempo. Sembra che il primo libro ebraico sia stato stampato proprio a Roma; e qui, come in altri centri, si sviluppò, durante il Medioevo e il Rinascimento, la Kabbalà, una disciplina che studia la struttura del mondo visibile in relazione a quella del mondo invisibile, e i rapporti fra questi mondi diversi e Dio. Per stabilire queste relazioni, che collegano persone, oggetti, simboli e concetti anche apparentemente molto diversi, la Kabbalà usa anche lo strumento della corrispondenza numerica, basandosi sul fatto che ogni lettera dell'alfabeto ebraico rappresenta un numero.

Il rogo del Talmud nel 1553 costituì un danno terribile per la tradizione degli studi a Roma, anche se tra il 1620 e il 1650 operò uno dei più sottili talmudisti del suo tempo, Chizkiah Manoach Corcos il Vecchio, capostipite di una dinastia nella quale si segnalò anche suo nipote Manoach Hal Corcos, famoso medico e Rabbino Capo dal 1702 al 1730, anno della sua morte.

IL RITO NELLE SINAGOGHE DI ROMA

Nel 70 d.C., distrutto il Tempio di Gerusalemme, il rito mutò totalmente: non essendoci più un santuario, i sacrifici vennero aboliti e sostituiti da preghiere.

Queste preghiere sono tradizionalmente ritenute appartenenti a due ceppi diversi, quello originario della Terra d'Israele e quello Babilonese, anche se in realtà si basano su uno schema comune, il Seder Rav 'Amram, elaborato in Babilonia nel IX secolo. Con il passare degli anni, e con tutte le conseguenze delle continue migrazioni, le comunità sparse nel mondo elaborarono il proprio rito autonomo (Minhag) con varianti al testo principale, canti liturgici aggiuntivi, melodie e modi recitativi originali.

Il Minhag italiano, detto anche Minhag Qahal Qadosh Italiani (della sacra comunità degli Italiani) appartiene al ceppo più vicino alla Terra d'Israele, insieme al rito tedesco (askenazita o occidentale), al rito greco romaniota e a un antico rito francese poi passato in alcune comunità piemontesi oggi estinte (Appam). Nel ghetto di Roma questo rito era officiato nella Scola Tempio, nella Scola Nuova e nella Scola Siciliana, e oggi è rimasto con qualche modifica nel Tempio Maggiore.

Gli ebrei spagnoli, o Sefarditi, dopo la loro espulsione nel 1492 portarono a Roma il loro rito, che deriva dal ceppo babilonese insieme al rito nordafricano, provenzale e yemenita. Ai tempi del ghetto, il Minhag Sefardi era celebrato nella Scola Catalana e Aragonese e nella Scola Castigliana e Francese; oggi viene usato a Roma nel Tempio Spagnolo, mentre il rito nordafricano è stato introdotto di recente dagli ebrei provenienti dalla Libia nella sinagoga Beth-El e in quella di Via Veronese.

Nel Cinquecento era presente a Roma anche il rito tedesco, testimonianza di contatti frequenti con le comunità d'oltralpe. Scomparso da secoli, vi è stato riportato in uso dopo la Seconda Guerra Mondiale ed è oggi officiato nel Tempio Askenazita.

LA NASCITA DEL GHETTO DI ROMA

Il ghetto di Roma fu organizzato nel 1555-1556 da Sallustio Peruzzi, architetto del papa Paolo IV Carafa, su un'area dove già molti ebrei abitavano. Le porte originali sembra fossero tre, invece delle due prescritte dalla bolla Cum nimis absurdum con la quale Paolo IV il 14 luglio 1555 istituiva il recinto. In luogo dell'unica sinagoga prescritta fu possibile mantenerne cinque (le Cinque Scole), purché contenute in un unico edificio. Le chiese che si trovavano all'interno del "serraglio" invece furono gradualmente abbandonate, mentre quelle confinanti con il ghetto furono usate per le prediche forzate e per altre forme di propaganda: sull'oratorio di San Gregorio ai Quattro Capi, per esempio, fu apposta una citazione biblica di biasimo agli ebrei tratta da un passo di Isaia.

Sisto V (1585-1590) mitigò le disposizioni contro gli ebrei, e l'architetto Domenico Fontana ampliò il ghetto aggiungendo altri due portoni e sistemando l'argine lungo il fiume. I suoi successori riportarono in vigore le vessazioni, mentre il ghetto si andava articolando intorno alle due vie principali, la Rua, lungo Portico d'Ottavia, e la Fiumara, lungo il Tevere, tagliate da sei vicoli su cui si affacciavano case a molti piani, buie e umide.

Nel 1603 si stabilirono definitivamente gli orari di chiusura e apertura delle porte, dall'alba a un'ora dopo il tramonto (due ore in inverno). Nel 1614 papa Polo V portava nel ghetto l'acqua Paola, risistemando la piazza dove si affacciava l'edificio delle Cinque Scole.

Le armate napoleoniche regalarono agli ebrei di Roma due periodi di apertura del ghetto (1798-1799, e poi 1808-1814). Nel 1824, grazie anche all'intervento della famiglia Rotschild, il ghetto fu di poco ampliato includendo via della Reginella fino a Piazza Mattei. Nel 1848 Pio IX eliminò i cancelli ma solo con la breccia di Porta Pia (1870) si concluse l'era del ghetto.

Il cimitero ebraico chiamato "ortaccio degli ebrei" era già nel Medioevo a Porta Portese in Trastevere e rimase in funzione sino al 1644. Nel 1587 ne fu requisita una parte, e solo nel 1645 Innocenzo X consentì alla Confraternita della carità e della Morte l'acquisto di un altro terreno. Si tratta del cimitero sull'Aventino, che funzionò fino al 1934, quando in epoca fascista la zona fu espropriata per farvi passare Via del Circo Massimo. Nel 1950 l'area del cimitero rimasta verde fu destinata a sede del roseto comunale.

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