I MOSAICI DELLA CUPOLA DI SAN PIETRO E IL BALDACCHINO DI GIAN LORENZO BERNINI

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Completati i pennacchi, per il proseguimento della decorazione interna nella cupola maggiore, nel 1603 Clemente VIII preferisce Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d'Arpino, a Cristoforo Roncalli, ed a partire dall'11 luglio dello stesso anno sono registrati i pagamenti che continuano fino al 20 gennaio 1613. L'intera superficie è formata da 16 costoloni divisi in 6 parti, con 96 figure racchiuse in campiture trapezoidali e rotonde. L'interno è un vero Te Deum, un inno i cui versetti sono enunciati nel programma iconografico pensato dal Cardinale Cesare Baronio e trascritti dal Cavalier d'Arpino in 65 cartoni dipinti a tempera, a grandezza naturale. Nell'occhio luminoso della lanterna, circondato da 8 teste di angeli, si trova Dio Padre, la cui Gloria si effonde su tutto. A lui l'intero paradiso intona lodi: Te Deum laudamus, Te Dominum confitemur (noi ti lodiamo, o Dio, noi ti proclamiamo Signore). In 3 cerchi concentrici, dall'alto verso la base, è distribuito un coro di angeli, la cui rappresentazione è ispirata dal De Coelesti Hierarchia dello Pseudo Dionigi l'Aeropagita: i Serafini, i più vicini al trono di Dio, sono raffigurati in stucco da Rocco Solaro come teste dorate con ali bianche. Angeli in adorazione li separano dai Cherubini, teste dorate circondate da 6 ali azzurre su un campo d'oro cosparso di stelle. Sostenuti da nuvole e in atteggiamento di preghiera sono ancora degli angeli, tre dei quali mostrano i simboli della passione: Tibi omnes angeli, tibi caeli et universae potestates. Tibi cherubim et seraphim incessabili voce proclamant (a Te cantano gli angeli e tutte le potenze dei cieli. A Te cantano i cherubini e i serafini con voce incessante). Alla Chiesa dei puri spiriti si associa, per la Gloria di Dio Padre, la Chiesa terrena. A capo di essa è il Cristo, Uomo-Dio, Re e Giudice, assistito dalla Vergine Maria e da Giovanni il Battista. Accanto, San Paolo e i 12 apostoli. Entro le lunette, immagini a mezzo busto di Patriarchi e Vescovi.

Sull'anello superiore, circondata da 32 stelle dorate su campo blu, è la scritta S. PETRI GLORIAE SIXTUS PP. V A MDXC PONTIF. V (a gloria di San Pietro, papa Sisto V, nell'anno 1590, quinto del suo pontificato), fatta apporre da Clemente VIII a ricordo di Sisto V, suo predecessore e promotore della grande impresa costruttiva della cupola. Al vertice si innesta il lanternino, alto 18 metri, chiuso da un cupolino decorato in mosaico con l'immagine del Padre Eterno in Gloria, eseguito negli anni 1603-1604 da Ranuccio Semprevivo. Per l'esecuzione della intera superficie, numerosi furono i mosaicisti diretti da Marcello Provenzale: Angelo Sabatini da Orvieto, Ginesio Vitali, Pier Lombardi da Cortona, Matteo Cruciano da Macerata, Cinzio Bernasconi, Bonaventura Sarafellini, Paolo e Cesare Rossetti, Francesco Zucchi, Lodovico Martinelli, Orazio Gentileschi, per citarne alcuni. La trasposizione a mosaico, protrattasi fino al pontificato di Paolo V, interpreta fedelmente le intenzioni cromatiche dell'autore dei cartoni. Le tinte, impostate sui due colori principali, l'azzurro dominante e l'oro, sfruttano la luce diffusa che entra dai grandi finestroni michelangioleschi ed invade uniformemente l'intradosso. L'effetto luminoso, oltre ad esaltare la spazialità delle strutture architettoniche in qualsiasi momento del giorno e da qualsiasi punto di vista, sottolinea la eccezionalità del luogo e introduce ad una visita contemplativa della sottostante Confessione: il luogo dove si incentrarono l'origine e la costruzione della primitiva basilica di San Pietro e il centro e il cuore dell'intero complesso monumentale.

Al di sopra della Confessione, sollevato da 7 gradini in marmo greco imetto, si eleva l'Altare Papale, edificato in continuità verticale con i precedenti altari di Gregorio Magno e Callisto II, non al centro della cupola ma arretrato verso l'abside. Rivolto verso Est, incontro al sole nascente, come era d'uso nelle basiliche paleocristiane, questo altare è riservato unicamente al Sommo Pontefice o a persona da lui delegata. Fu eretto da Clemente VIII nel 1594 per completare la parte già ultimata della nuova basilica. D'intesa con la Sacra Congregazione dei Riti, il papa stabilì di non inserire nessuna reliquia nel nuovo altare poiché i resti dell'apostolo Pietro ne formavano già la base e il fondamento. I materiali per la costruzione furono tratti in gran parte dal Foro di Nerva, dal Tempio di Minerva e dalle rovine della vicina Torre dei Conti, i cui marmi servirono anche per la costruzione della fontana monumentale sul Gianicolo. Il papa Clemente VIII consacrò il nuovo altare la domenica del 26 giugno 1594 e vi celebrò la prima messa tre giorni dopo, in occasione della festa dei Santi Pietro e Paolo. La consacrazione è ricordata da una iscrizione incisa sotto la mensa marmorea, dalla parte del celebrante: CLEMENS PAPA VIII SOLEMNI RITU CONSECRAVIT VI KAL. IUL. AN. MDXCIIII PONT. III (papa Clemente VIII con rito solenne consacrò il 26 giugno del 1594, terzo del pontificato).

Prima della attuale sistemazione ad opera del Bernini, nel 1606 Palo V aveva fatto collocare sopra l'altare un baldacchino di legno di tipo processionale, alto 9 metri, sostenuto da 4 angeli, opera di Ambrogio Buonvicino e Camillo Mariani. Si trattava di una soluzione modesta, di aspetto provvisorio e certamente non intonata alla grandiosità della basilica. Sin dalla sua elezione, nel 1623, il problema fu sentito da Urbano VIII il quale, già il 12 luglio del 1624, incaricò Bernini di ideare un prestigioso ciborio, non lesinando mezzi perché l'opera riuscisse degna del luogo e della sua funzione. Una fiducia ripagata dall'artista con la creazione della più importante struttura in bronzo dell'arte barocca romana, che nonostante la mole (28 m di altezza) e l'estrosità formale, si inserisce armoniosamente nella vastità della chiesa. Il baldacchino infatti, non diminuisce l'impressione di profondità della basilica ma al contrario la aumenta, facendo apparire a chi entra ancora più lontana l'abside, inquadrata tra le colonne. Opera spettacolare, anticlassica nella sua veste formale, si riallaccia però per molti aspetti alla tradizione. Per non ripetere le tipologie medievali e rinascimentali del ciborio - composto da una cuspide o cupola marmorea retta da colonne - ed evitare di creare una sorta di tempietto dentro un tempio, Bernini si ispirò al baldacchino di tipo processionale, ricercando una soluzione di aspetto pittorico piuttosto che architettonico. Immaginò allora una soluzione ispirata dalle stoffe, che potesse dare la sensazione di una struttura leggera, mobile e provvisoria, a cui concorre in modo determinante la presenza delle 4 slanciate colonne tortili di bronzo dorato. Si sottrasse così alla monotonia che avrebbero prodotto quattro tronchi lisci di quella straordinaria mole.

Le colonne, ciascuna di 5 segmenti compreso il capitello, vennero fuse nella tecnica della cera persa da due modelli di legno di ontano. Ogni sezione è collegata da una giunzione fissata con viti all'anima interna, per assicurarne la stabilità, e gli incastri sono rifiniti con colature di piombo non dorato. La suddivisione in 3 sezioni, l'inferiore con scanalature elicoidali e le due superiori con rami d'ulivo e alloro, popolate da putti, lucertole e api (simbolo dei Barberini), invita l'occhio a spostarsi da una curva all'altra del loro avvolgimento a spirale, favorendo una visione dinamica dal basso verso l'alto. Le colonne bronzee poggiano su piedistalli marmorei, decorati con stemmi di Urbano VIII, e terminano con ricchi capitelli compositi, sovrastati da quattro dadi con visi raggianti in rilievo (altro emblema dei Barberini) sui quali insiste una articolata trabeazione. Al di sopra si elevano quattro enormi volute bronzee a dorso di delfino, suggerite probabilmente dal Borromini, che congiungendosi al vertice, concludono il baldacchino e sostengono un globo sormontato dalla croce. Agli angoli quattro angeli modellati da Andrea Bolgi, Giuliano Finelli e François Duquesnoy recano festoni di fiori. Otto putti festanti mostrano le chiavi e il triregno di San Pietro, la spada ed il libro di San Paolo. L'inaugurazione dell'opera completa avvenne il 29 giugno del 1633, e l'immenso lavoro comportò subito critiche sia all'autore che al papa committente, soprattutto per gli espedienti adottati per reperire il bronzo impiegato. Dapprima si tolsero i costoloni della cupola ricavandone 103.229 libbre, a cui se ne aggiunsero circa altrettante provenienti da Venezia e Livorno. Non risultando ancora sufficienti, Urbano VIII fece togliere il bronzo dalle travature del Pantheon, cosicché la statua parlante di Pasquino coniò la celebre frase passata alla storia: quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini (quello che non hanno fatto i barbari, lo hanno fatto i Barberini). Il Pantheon, in cambio di questa sottrazione che fornì più del metallo necessario all'impresa, venne risarcito con due campanili, argutamente ribattezzati dal popolo romano "le orecchie d'asino di Bernini", demoliti nel 1883.